Più casa e meno ufficio, più social e meno contatto fisico. Aumentano le persone che si sentono sole, soprattutto dopo il covid. Da dove nasce questa sensazione? Che conseguenze ha? Dobbiamo immaginare nuovi modi per ritrovarci
Nei primi mesi del 2020, mentre la pandemia di covid-19 si diffondeva nel mondo, Richard Weissbourd, uno psicologo e docente di Harvard, propose ai suoi colleghi l’idea di un nuovo studio. La solitudine, o il suo spettro, sembrava incombere ovunque: nella quarantena, nelle finestre oscurate degli edifici dei campus, nei quadratini di Zoom, che era diventato il principale canale di contatto con gli studenti. Due anni prima aveva letto uno studio della compagnia di assicurazioni Cigna dal quale emergeva che il 46 per cento degli statunitensi si sentiva solo a volte o sempre. Nel 2019, quando la Cigna aveva replicato lo studio, la percentuale di intervistati che si sentivano soli era salita al 52 per cento. Dio solo sa cosa ci direbbero i dati oggi, aveva pensato Weissbourd.
“Inizialmente abbiamo pensato: ok, abbiamo un problema che riguarda molti, non è nuovo ma ora è più visibile e presente che mai”, racconta Weissbourd. “Volevo entrare nei dettagli. Per esempio, come vive chi si sente solo? Con quali conseguenze? Dove nasce questa sensazione?”.
Trovare risposte a questo tipo di domande è difficile. La solitudine è una sensazione composita o multidimensionale: contiene elementi di tristezza e ansia, paura e angoscia. È un’esperienza intrinsecamente, intensamente soggettiva, come vi direbbe qualsiasi persona cronicamente sola. Chi lavora in un negozio di alimentari affollato può sentirsi estremamente solo, mentre un vecchio eremita che vive in una grotta può essere perfettamente sereno. Per comodità, la maggior parte dei ricercatori usa ancora la definizione coniata nei primi anni ottanta dagli psicologi sociali Daniel Perlman e Letitia Anne Peplau, secondo cui la solitudine è “una discrepanza tra il livello di relazioni sociali desiderato e quello reale”. Purtroppo, anche questa definizione è piuttosto soggettiva.
Per comprendere la crisi attuale, Weissbourd – preside della facoltà di Making caring common, un progetto della Harvard graduate school of education che raccoglie e diffonde ricerche sulla salute e il benessere – ha creato un sondaggio costituito da 66 domande da inviare a circa 950 persone negli Stati Uniti. Eccetto un paio di domande dirette – per esempio “Nelle ultime quattro settimane, quante volte ti sei sentito solo?” – la maggior parte delle altre ideate da Weissbourd e dalla direttrice della ricerca e della valutazione del progetto, Milena Batanova, affrontava la questione da una varietà di angolazioni: “Hai l’impressione di cercare le persone più di quanto loro cerchino te?”, “Ci sono persone nella tua vita che ti chiedono cosa ne pensi di questioni che sono importanti per te?”, “Qualcuno si è soffermato per più di qualche minuto a chiederti come stai, dandoti l’impressione di essere sinceramente interessato?”.
Diverse settimane dopo, i risultati grezzi sono stati inviati a Weissbourd. “Le persone stavano soffrendo davvero molto”, ha detto, e su una scala che faceva impallidire altri dati su questo tema. Il 36 per cento degli intervistati diceva di essersi sentito sempre solo nel mese precedente e un altro 37 per cento dichiarava di essercisi sentito occasionalmente o sporadicamente. Le risposte alle domande successive hanno aiutato a chiarirne i motivi. Nel gruppo che si definiva solo, il 46 per cento dichiarava di contattare le altre persone più di quanto lo facessero gli altri. Il 19 per cento diceva che nessuno al di fuori della propria famiglia si preoccupava per loro. La difficoltà era particolarmente evidente nei giovani di età compresa tra i 18 e i 25 anni, una considerevole maggioranza dei quali diceva di aver provato un forte senso di solitudine nel mese precedente. Ovviamente, dicevano queste persone, la pandemia aveva influito. In alcuni casi si erano effettivamente allontanati da un mondo che non aveva più molto significato per loro.
Nel febbraio 2021, più o meno nel periodo in cui Harvard annunciava la ripresa delle lezioni in presenza, Making caring common ha pubblicato i risultati del sondaggio. “Ci sono grandi vuoti nel nostro tessuto sociale”, diceva Weissbourd in un comunicato stampa che accompagnava il rapporto intitolato “La solitudine in America”. Quasi subito e per mesi sono arrivate le email e le telefonate di giornalisti e ricercatori e di persone sole che si erano riconosciute nei risultati. “La pandemia ha fatto emergere e ha aggravato un problema già esistente”, ammette Weissbourd. E ha continuato ad accelerare per molto tempo dopo la riapertura del mondo: nel marzo 2021, un quarto degli adulti che aveva risposto a un sondaggio Gallup dicevano di sentirsi soli per “gran parte” della giornata. La percentuale di giovani che provavano regolarmente questa sensazione era vicina al 40 per cento. Da allora i numeri dei sondaggi Gallup sono leggermente diminuiti, ma comunque secondo l’American psychiatric association il 25 per cento dei residenti negli Stati Uniti è più solo oggi rispetto a prima della pandemia.
Soluzioni superate
Nel 2023 il responsabile della salute pubblica degli Stati Uniti, Vivek Murthy, ha presentato un documento di 71 pagine che parlava di “un’epidemia di solitudine e isolamento” e dei pericoli che comporta. Secondo Murthy, attualmente la mancanza di connessione sociale colpisce più statunitensi del diabete o dell’obesità. Insieme alla concomitante decisione dell’Organizzazione mondiale della sanità di fare della solitudine un “tema di salute pubblica globale”, il rapporto di Murthy ha contribuito a portare il problema allo stesso livello di attenzione della depressione e dell’ansia nei primi anni duemila, scatenando una cascata apparentemente infinita di articoli in prima pagina e libri di autoaiuto. Oggi ci sono centinaia di podcast dedicati alla solitudine, e una sfilza di start-up e organizzazioni non profit per combatterla.
Il Giappone e il Regno Unito hanno nominato funzionari governativi incaricati di scandagliare le profondità della crisi e intervenire, sia con campagne di sensibilizzazione sia con iniziative come quella britannica in cui ai postini è stato chiesto di vigilare sugli anziani che vivono lungo i loro percorsi. Murthy, da parte sua, ha suggerito che le aziende d’intrattenimento potrebbero creare più contenuti che “rafforzino i valori fondamentali della connessione”. Gli individui, aggiunge, dovrebbero prendere in considerazione “l’idea di partecipare in modo positivo e costruttivo agli incontri e alle riunioni pubbliche (per esempio ai consigli scolastici o delle amministrazioni locali)”.
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Tutti questi sforzi condividono, in un modo o nell’altro, l’idea che la soluzione al senso di solitudine possa essere una telefonata, un’email, un messaggio o bussare alla porta di qualcuno, insomma che la chiave per colmare il divario tra i livelli percepiti dei rapporti interpersonali e quelli reali sia ripristinare un mondo che non esiste più. Nella migliore delle ipotesi, questo modo di pensare indica un fraintendimento di come viviamo oggi (e in futuro). Nel peggiore dei casi, distrae dai problemi reali. Ricerche come quelle di Weissbourd e Batanova, dimostrano che quando parliamo di solitudine includiamo tutte le questioni che le turbinano pericolosamente intorno: alienazione e isolamento, sfiducia e disconnessione e, soprattutto, la sensazione che molte delle istituzioni e delle tradizioni che un tempo ci tenevano uniti siano meno disponibili. La soluzione non può semplicemente essere tornare indietro nel tempo. È necessario ripensare il problema e le soluzioni possibili.
Rispetto ad altri disagi mentali, la solitudine è un problema sorprendentemente moderno: anche se forse ampi segmenti di popolazione hanno sempre sofferto di ansia, depressione o rabbia, non hanno sempre sofferto di solitudine nel modo specifico (e negativo) in cui la definiscono gli esperti contemporanei. Nel suo libro del 2019A biography of loneliness (Biografia della solitudine), la storica Fay Bound Alberti arriva a sostenere che prima dell’ottocento praticamente nessuno nel mondo occidentale passava molto tempo a discutere di solitudine.
I primi esemplari di Homo sapiens cercarono la sicurezza nella vita comunitaria
Il che non vuol dire che nessuno aveva familiarità con la parola: è citata in Tutto è bene quel che finisce bene di Shakespeare, nel dizionario di Samuel Johnson (“disposizione alla solitudine”), e nel Robinson Crusoe di Daniel Defoe, pubblicato nel 1719. Eppure, come scrive Bound Alberti, nella maggior parte della letteratura precedente all’ottocento “non compare alcuna esperienza emotiva legata alla solitudine”. Anzi, spesso era un privilegio poter stare soli. Era come una giornata alle terme. Provate a vivere in una casa con una sola stanza per 14 persone. Desiderereste anche voi un po’ di isolamento.
Nell’appendice del suo libro, Bound Alberti include un grafico che raffigura l’incidenza della parola loneliness in un database di opere in lingua inglese stampate tra il 1550 e il 2000. Dal 1550 al 1800, la linea oscilla tra lo zero e lo 0,0001 per cento. Poi arrivano gli anni venti dell’ottocento e la linea sale dritta verso l’alto, come un alpinista che scala una vetta. Non c’è niente di strano. Il mondo stava cambiando rapidamente: la guerra, la meccanizzazione, la nascita della metropoli, di nuovo la guerra. Le comunità si disintegravano, a volte a causa di conflitti e a volte perché i residenti credevano di poter trovare opportunità migliori altrove. La gente si spostava dai piccoli centri alle grandi città anonime e quando lo faceva cercava un nuovo modo per affrontarne il costo emotivo. Se guardiamo il grafico di Bound Alberti, è molto probabile che sia simile a quello che succede oggi. Negli anni cinquanta del novecento un piccolo gruppo di scienziati statunitensi cominciò a cimentarsi, per la prima volta, nella ricerca delle cause e degli effetti di questa nuova malattia moderna, stabilendo quello che oggi è il campo in crescita degli studi sulla solitudine. Tra loro c’era David Riesman, un sociologo che la collegava inestricabilmente alla mancanza. Gli Stati Uniti del dopoguerra erano ricchi, ammetteva Riesman, ma la prosperità aveva portato i suoi abitanti a preoccuparsi delle cose sbagliate. Erano “eterodiretti”, come li definiva nel suo bestseller La folla solitaria, scritto con Nathan Glazer e Reuel Denney. Oggi parleremmo di fomo, l’acronimo inglese per “fear of missing out”, cioè la paura di essere tagliati fuori.
Altri erano inclini a vedere l’emozione come qualcosa di significativamente più spaventoso, una vera e propria sindrome medica, potenzialmente diffusa allo stesso livello della depressione o della maniacalità. “Non sto parlando della solitudine temporanea, per esempio, di una persona che deve stare a letto con il raffreddore in una piacevole domenica pomeriggio mentre il resto della famiglia si gode la vita all’aria aperta”, scrive Frieda Fromm-Reichmann, una psichiatra di origine tedesca, in un articolo intitolato “Solitudine”, pubblicato postumo nel 1959. Fromm-Reichmann non si riferiva alla malinconica solitudine dell’artista o alle dolorose emozioni che si provano dopo la perdita di un coniuge. Il suo interesse era per la solitudine veramente debilitante, come quella che osservava nei suoi pazienti: una solitudine “non costruttiva se non addirittura disintegrativa”, che porta allo “sviluppo di stati psicotici, rendendo le persone che ne soffrono emotivamente paralizzate e indifese”.
Ma come nasce il senso di solitudine? E perché? Quello che alla fine ha fatto progredire la nostra comprensione è stata la biologia. “Ecocardiogrammi, imaging cerebrale, analisi del sangue e delle urine. Con questi esami si può effettivamente misurare cosa sta succedendo nel corpo di una persona che soffre di solitudine”, mi ha detto di recente la psicologa Louise Hawkley.
Hawkley si occupa di solitudine da quasi trent’anni. Insieme al suo mentore e amico, il defunto psicologo John Cacioppo, ha supervisionato o lavorato a quasi un centinaio di pubblicazioni che illustrano, spesso in dettaglio, il prezzo fisiologico che ci fa pagare la solitudine. È grazie a Cacioppo e Hawkley, per esempio, se sappiamo che fa salire la pressione sanguigna, altera negativamente le nostre funzioni cognitive, è associata al diabete di tipo 2 e accorcia la durata della vita (studi successivi l’hanno collegata alla tendenza al suicidio, all’alzheimer e alla leucemia). Quando Vivek Murthy, nel suo articolo del 2023, scrive che la solitudine “è associata a un maggiore rischio di malattie cardiovascolari, demenza, ictus, depressione e ansia”, si basa in gran parte sul lavoro di Cacioppo e Hawkley.
In uno dei loro esperimenti più innovativi, progettato per dimostrare che la solitudine può causare cattive condizioni di salute, hanno assunto un esperto di ipnosi per indurre in un piccolo gruppo di soggetti una sensazione di maggiore solitudine. Una volta raggiunto questo stato, la pressione sanguigna e i livelli di infiammazione dei soggetti sono aumentati. “E quando quelle stesse persone sono state indotte a sentirsi meno sole” – quando cioè l’ipnosi è stata invertita – “i risultati sono cambiati”, spiegano.
In evoluzione
Alla metà degli anni 2000, Hawkley e Cacioppo hanno concentrato la loro ricerca combinata in quella che Hawkley mi ha descritto come una “sorta di grande teoria evoluzionistica della solitudine”. I risultati, pubblicati su The Journal of Research in Personality, arrivano alle radici della nostra situazione attuale in modo più incisivo di qualsiasi altra cosa che io abbia mai letto. In sostanza, sostengono Hawkley e Cacioppo, i primi esemplari di Homo sapiens, minacciati da bestie dalle lunghe zanne e sprovvisti di un’armatura naturale, cercarono la sicurezza nella vita comunitaria: impararono “a usare e riconoscere gli inganni, a comunicare, collaborare e formare alleanze”, dicono gli autori. O almeno alcuni di loro ci riuscirono (gli altri furono mangiati). Nel corso dell’evoluzione, il nostro cervello ha imparato a dare priorità allo stare insieme e a generare una risposta ansiosa quando restiamo esclusi dal gruppo.
Pensate alla sensazione di calore che si prova entrando in una stanza piena di amici. E poi immaginate di essere esclusi da un gioco da quegli stessi amici, esempio tratto da uno studio citato da Hawkley e Cacioppo. Le scansioni cerebrali dei partecipanti esclusi hanno dimostrato “un’attivazione neurale localizzata in una porzione dorsale della corteccia cingolata anteriore che è coinvolta nella componente affettiva della risposta al dolore”. Secondo Hawkley e Cacioppo, insomma, il dolore dei soggetti era la prova che il senso di solitudine è un segnale biologico, non dissimile dal brontolio dello stomaco quando si ha fame. “Serve a motivarci, a dirci che abbiamo bisogno di più persone intorno a noi o di maggior sostegno. Indica che c’è qualcosa che non va”.
Gli ostacoli possono far parte del processo di adattamento che ci spinge a unirci
Nei casi peggiori, la solitudine diventa una profezia che si autoavvera, un laccio che si stringe a ogni tentativo di scrollarsela di dosso. A volte si assiste a una sorta di circolo vizioso, dice Hawkley: una persona vuole disperatamente non essere sola, ma la paura e l’ansia la convincono che la sua solitudine riflette una fondamentale indesiderabilità, che sia tutta colpa sua. “Il cervello va in cortocircuito”.
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Nel 2021 Daniel Maitland, uno psicologo e professore associato dell’università del Missouri a Kansas City, ha ideato uno studio pilota basato sull’elettrocardiogramma in cui ha chiesto a un gruppo di persone che si erano identificate come sole di partecipare a una serie di esercizi per costruire relazioni. Quando gli è stato chiesto di rivelare qualcosa di personale ai loro compagni, i segnali sui monitor sono aumentati, indicando che la vulnerabilità era un importante fattore di stress per il loro sistema nervoso.
Ci sono due modi per analizzare questi risultati. Il primo è dedurne che i soggetti si sentivano soli proprio perché per loro l’intimità era una naturale fonte di tensione. Il secondo è che erano intrappolati nella loro testa, in un circolo vizioso. In questi casi, il consiglio di partecipare alla vita politica di un’amministrazione locale o a una tombola nei locali di una chiesa rischierebbe di cadere nel vuoto, in parte a causa della paura che genererebbe, ma in parte anche perché a molti di noi quel tipo di incontri comunitari sembra antico e poco attraente: il residuo di un’epoca passata.
Nel 2000, il politologo di Harvard Robert Putnam pubblicò Bowling alone, un libro in cui documentava la progressiva scomparsa di organizzazioni e gruppi che un tempo tenevano insieme tanti statunitensi: fattorie e chiese, sindacati e circoli di lettura delle biblioteche, club sportivi e associazioni di quartiere. Quasi un quarto di secolo dopo, la tendenza non si è invertita. Anzi, basta vedere i dati sui nuclei familiari: nel 2024, il tasso di matrimoni è molto più basso di quello della metà del novecento, mentre il numero di famiglie costituite da una sola persona è più che triplicato, raggiungendo il 29 per cento.
Ovviamente il matrimonio non elimina la solitudine – molti matrimoni sbagliati o violenti sono terribilmente tristi per le persone prigioniere al loro interno – mentre una casa dove vive una sola persona non è necessariamente indice di solitudine. Eppure è impossibile guardare i dati aggregati dagli anni cinquanta in poi – tra cui un nuovo sondaggio Gallup sulla partecipazione settimanale alle funzioni religiose negli Stati Uniti, che nel 2023 è scesa al 21 per cento della popolazione – e non sentire che qualcosa è andato perduto.
“Non sto suggerendo che dovremmo diventare più religiosi, intendo solo dire che le comunità religiose sono un luogo in cui gli adulti difendono i propri valori, coinvolgono i bambini in grandi questioni etiche, dove la vita morale e quella spirituale si fondono”, ha detto Weissbourd in una conferenza dello scorso marzo alla Harvard Kennedy school of government. “Offrono la sensazione di avere degli obblighi verso i propri antenati e i propri discendenti, e una struttura che aiuta ad affrontare il dolore e la perdita: dobbiamo capire come riprodurre questi aspetti della religione nella vita secolare”, ha aggiunto.
All’inizio di quest’anno, Weissbourd e Batanova hanno condotto un follow-up al loro sondaggio del 2021, aggiungendo una domanda aperta in cui chiedono agli intervistati che soffrivano di solitudine di spiegare il motivo di quella sensazione. Molti hanno citato come principale responsabile la mancanza di un “rapporto significativo”, indipendentemente dal fatto che la compagnia di un essere umano fosse disponibile o meno. La vicinanza fisica non è sempre il problema: di solito manca quella emotiva. Una giovane madre vede la propria esistenza limitata a prendersi cura del suo bambino; un intervistato si lamenta del fatto che il suo partner “guarda continuamente il telefono”; un terzo soggetto ammette di avere molti familiari intorno, ma di sentirsi sottovalutato da loro. “Sono circondato”, scrive un quarto, da persone “che sono presenti nella mia vita solo perché gli sono utile”.
Relazioni atrofizzate
Il lavoro – l’ufficio – sembra essere di scarso aiuto. Sempre meno gli statunitensi trovano uno scopo e un significato nella loro carriera, e quelli che lo fanno lavorano in un panorama drasticamente modificato. Con la pandemia, i palazzi di uffici di tutte le principali città del paese si sono svuotati; oggi 22 milioni di persone lavorano da casa, comunicando con i colleghi tramite Zoom o Slack. Anche se per qualcuno il “pendolarismo virtuale” è un bene per la produttività, è palesemente dannoso per la costruzione di comunità. Uno studio condotto nel luglio 2024 da Jeffrey Hall, docente di studi sulla comunicazione dell’Università del Kansas, e da un team di ricercatori ha chiesto a 4.300 statunitensi di parlare della loro cerchia sociale. La maggior parte degli intervistati ha dichiarato di aver conosciuto i propri amici intimi a scuola o al lavoro. Ma i numeri variavano in base all’età: le persone sopra i cinquant’anni avevano più del doppio della probabilità di aver conosciuto almeno un amico intimo al lavoro rispetto alle persone sotto i trent’anni. “La rimozione dell’aspetto sociale del lavoro incoraggia ulteriormente le persone a mantenere le distanze dal proprio impiego”, ha scritto Hall sul Wall Street Journal. “Questo distacco potrebbe avere il duplice effetto di garantire un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata, ma anche di lasciare i lavoratori più soli di quanto sarebbero se si fossero fatti degli amici in ufficio”.
Le conseguenze della pandemia, per tutti noi, si sono rivelate difficili da cancellare. Gli studi hanno dimostrato che siamo usciti dalla quarantena con meno capacità di stabilire un contatto visivo o di condurre una normale conversazione con i nostri conoscenti. “Le interazioni che ci rendono meno soli devono essere praticate, altrimenti le nostre abilità si atrofizzano”, mi ha detto Ian Marcus Corbin, un filosofo della Harvard medical school. “Nel 2020 e nel 2021 molte persone che erano nel pieno della loro crescita hanno visto quei muscoli atrofizzarsi”.
Queste foto
◆ Le foto di queste pagine fanno parte della serie Transform, un progetto del fotografo Bence Bakonyi sulla capacità delle persone di adattarsi all’ambiente che le circonda.
Allo stesso tempo, l’uso di “forme di interazione senza attriti”, come le casse automatiche e le applicazioni per la consegna dei pasti, è aumentato a dismisura. Per Corbin questi sviluppi sono esempi di cocooning: il rinchiudersi nel bozzolo di un mondo digitale che fornisce tutto ciò di cui si ha bisogno tranne la cosa di cui si ha più bisogno, cioè il “rapporto significativo”.
Quando quest’anno ho parlato con lei, Julianne Holt-Lunstad, una professoressa di psicologia e neuroscienze della Brigham Young University, ha riassunto gli effetti aggregati di queste perdite in una cascata di statistiche che a quanto sembra aveva imparato a memoria. “Guardando i dati dal 2003 al 2020 si vede che negli Stati Uniti il tempo che le persone passano da sole è aumentato, mentre quello che trascorrono con amici e familiari è notevolmente diminuito”, mi ha detto. E ha aggiunto: “A volte non esiste sostegno sociale, altre volte le relazioni sono di scarsa qualità. Tutto ciò significa che i nostri bisogni sociali non sono soddisfatti”.
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Comunque insieme
Tradizionalmente, i momenti in cui gli statunitensi sono stati più afflitti dalla solitudine sono stati anche momenti di grande cambiamento. “C’è una natura ciclica in questo”, dice Eric Klinenberg, un sociologo della New York University e autore di Going solo. The extraordinary rise and surprising appeal of living alone (Lo straordinario aumento e il sorprendente fascino di vivere da soli). “Grazie alla letteratura possiamo capire l’ansia provocata dalla solitudine all’inizio del novecento, quando tutti cominciarono ad ascoltare la radio. O più tardi, quando temevamo che le auto ci avrebbero allontanato dalle nostre famiglie e dai nostri quartieri alla ricerca di qualcosa di nuovo. Lo si può leggere nelle opere degli anni sessanta e settanta, con la rivoluzione sessuale e l’aumento del tasso di divorzi. La solitudine è sempre a portata di mano. È sempre lì pronta per noi”, è il nostro modo di reagire alla sensazione che la cultura sta cambiando troppo velocemente e ci sta lasciando indietro.
Sempre più spesso da soli
Se oggi l’“epidemia” di solitudine ci sembra estremamente grave, osserva Klinenberg, è solo perché il cambiamento attuale sta avvenendo su una scala senza precedenti. Cattivo funzionamento della politica, riscaldamento globale, crisi della salute mentale e, soprattutto, una trasformazione, con internet, del modo in cui comunichiamo. La reazione più immediata a simili cambiamenti e alla solitudine che provocano, è sperare che spariscano, cercare di rimettere di nuovo il genio nella lampada. Weissbourd la definisce una “palpabile nostalgia per le vecchie modalità di vicinanza”, e la si trova dovunque nelle risposte al nuovo sondaggio, in cui è stato chiesto se gli statunitensi oggi sono più soli che nei decenni passati e, in caso affermativo, perché. “Le generazioni precedenti”, scrive un intervistato, “non erano così egocentriche e si aiutavano di più a vicenda”. Un altro parla di un tempo in cui le persone “vivevano più vicine” e “facevano maggiore affidamento sulla famiglia”. “Ci vuole una comunità per sopravvivere”, dice un terzo.
“Questo sentimento traspare anche da molte delle soluzioni politiche proposte, come l’invito ai postini di vigilare sugli anziani soli proposta nel Regno Unito o la guida per il 2023 di Murthy, quando suggerisce che le persone sole “dovrebbero rivolgersi a un amico o a un familiare” e che i genitori dovrebbero incoraggiare i figli a partecipare ad attività sociali e in presenza “come il volontariato, lo sport, attività comunitarie e programmi di tutoraggio”. Questo implica che per ridurre il divario tra le relazioni sociali reali e quelle desiderate, e quindi porre fine all’epidemia di solitudine, bisognerebbe semplicemente ricreare, in una sorta di forma aggiornata, i tipi di comunità del passato.
Purtroppo, la storia raramente funziona così. “Un grosso problema nell’attuale retorica sulla solitudine è che la trattiamo come se andasse sempre in una sola direzione”, dice Klinenberg. Ma non è così, il fenomeno è più sfumato. Quando la solitudine attanagliò il mondo occidentale durante la rivoluzione industriale, non tutti si ritirarono di colpo nei loro villaggi d’origine.
La radio non ci ha reso permanentemente soli. Abbiamo costruito nuove comunità in città lontane dalle nostre famiglie. Abbiamo usato la radio per allargare il nostro mondo e per parlare con persone dall’altra parte del paese. Ci siamo adattati. E per quanto possa essere difficile da accettare, nel 2024 il modo per uscire dalla solitudine è quasi certamente fare un percorso simile: andare avanti.
Alcuni segnali indicano che un’evoluzione di massa del genere è già in corso. Prendiamo lo smartphone, un dispositivo molto criticato perché cancella la vicinanza fisica ma che ha contemporaneamente portato ad altre, non meno significative, forme di vicinanza. “Ho scritto un intero libro sugli appuntamenti online e, per fare un esempio, so quante esperienze spiacevoli si possono fare su Tinder”, dice Klinenberg. “Ma so pure che internet è il luogo principale in cui le persone oggi si incontrano per poi sposarsi. Oppure penso alle persone che soffrono di malattie rare e sono in grado di condividere informazioni e scoprire cure migliori e sentirsi connesse. Penso a ragazzi e ragazze trans che soffrono perché si sentono rifiutati e sole in famiglia, e che oggi sono in grado di parlare con persone come loro, di ricevere messaggi di sostegno”.
Questo non vuol dire che non avremo più bisogno di contatto fisico, ma potremmo averne di meno, e i contatti fisici che restano potrebbero sembrare diversi da quelli dei nostri antenati. Novantaseimila fan di Taylor Swift che cantano all’unisono, il rombo di uno stadio di calcio affollato e poi miliardi di thread su internet in cui i partecipanti pubblicano foto e ricordano l’euforia della loro esperienza condivisa. Una storia d’amore che esiste in parte nel mondo reale e in parte online, e in cui la vicinanza emotiva non è minore ma è rafforzata da un flusso costante di confidenze che mettono a nudo l’anima e che i social media possono facilitare. Gli ostacoli possono essere di ogni tipo, ma come nel caso della teoria evoluzionistica di Cacioppo e Hawkley, potrebbero far parte del processo di apprendimento e di adattamento. Far parte della spinta che ci costringe a unirci.
Socchiudete gli occhi e vedrete che forse la crisi della solitudine di oggi è solo un periodo di acclimatamento di massa. È un ponte, un passaggio evolutivo, durante il quale accettiamo certi compromessi e certe realtà. Nel 2024 non tutti correremo a ricongiungerci alla comunità locale. Non torneremo tutti in chiesa o al tempio o alla moschea. I nostri figli potranno crescere lontano dai nonni e dagli zii, lontano dalle città in cui noi siamo cresciuti. Il luogo di lavoro rimarrà diffuso, basato sulle riunioni su Zoom e sull’occasionale happy hour in presenza. Spesso vedremo gli amici più su FaceTime che nella vita reale. Ma la cosa più importante è, che, nonostante tutto, ci ritroveremo. ◆ bt
Matthew Shaer è un giornalista statunitense. Scrive per il New York Times Magazine, The Atlantic, Wired.
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Questo articolo è uscito sul numero 1581 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati